Le mie conversazioni con il filosofo Byung-Chul Han
Come sopravvivere al post-umano tra smartphone e selfie, intelligenza artificiale e vita contemplativa
Il pensiero del filosofo tedesco di origini sudcoreane Byung-Chul Han dirada le nebbie dello stordimento contemporaneo. Nei suoi numerosi saggi, la prosa limpida e profonda del docente di Filosofia all'Università delle Arti di Berlino non perde mai precisione, smontando pezzo per pezzo l’illusione del presente, la liquefazione del mondo tangibile tra le non cose del digitale e il cambiamento del nostro rapporto con il possesso, declinato nell’ansia di avere in-formazioni che ci de-formano.
Tra smartphone e selfie, ci abbandoniamo a un’intelligenza artificiale che può far ben poco per noi.
L’unica salvezza dall’angoscia è la speranza di ritrovare l’Altro attraverso il silenzio della beatitudine.
E nella vita contemplativa.
Negli anni ho dialogato più volte con Han.
Questo è un compendio completo delle mie approfondite conversazioni con questo teorico della cultura globalizzata.
Per lei, la digitalizzazione «disincarna il mondo», bandendo i nostri ricordi.
Chi difende la vita digitalizzata sostiene invece che la nostra memoria si è trasferita nei server, dov’è facilmente consultabile.
Perché non sposa questa visione post-umana?
L’approccio post-umano si fonda su un errore. La memoria non è costituita dall’immagazzinamento di dati e informazioni. Tramite i ricordi ci raccontiamo piuttosto una storia.
Ciò significa che la memoria non è additiva, bensì narrativa.
Tale narratività distingue la memoria dai medium digitali di immagazzinamento, che operano solo in chiave additiva.
Le tracce mnemoniche sono costantemente sottoposte a un processo di riordino e trascrizione. S’intrecciano in maniera sempre nuova, riferendosi le une alle altre. Così ci raccontiamo ogni volta una storia diversa.
La memoria è un tessuto narrativo. Le tracce mnemoniche sono vive, il dispositivo che salva i dati è morto. I dati immagazzinati restano sempre uguali a sé stessi. Sono morti.
Le informazioni rendono ogni cosa trasparente. Ma solo ciò che è morto è trasparente. Le cose vive non si lasciano trasformare in dati e informazioni.
Ecco perché anche Nietzsche eleva l’ignoranza a nucleo primario della vita. Non basta intuire che l’essere umano e l’animale vivono nell’ignoranza: dobbiamo anche riscoprire la volontà di non sapere, imparando a tollerare tale mancanza di trasparenza.
L’ignoranza è quindi la precondizione affinché ciò che è vivo si conservi e prosperi. I post-umanisti non sanno cos’è la VITA.
Nell’infosfera siamo tutti infomani e datasexuals: feticisti di informazioni che non comprendiamo, cullati dagli smartphone in una beata stupidità.
In che modo le informazioni deformano la verità?
Non bastano le informazioni a spiegare il mondo. Oggi siamo ben informati, eppure ci manca il senso dell’orientamento. Ci approcciamo alle informazioni col sospetto che le cose possano anche stare diversamente. Ecco allora che l’informazione si accompagna una sfiducia di fondo. In questo si distingue dalla verità. Più veniamo messi dinanzi a svariate informazioni, più la sfiducia cresce.
Da un determinato punto critico in poi, l’informazione cessa di essere informativa e diventa disinformante. Questo potrebbe-anche-stare-diversamente, questa esperienza della contingenza è un tratto essenziale
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