Sei uno scappato di casa. Sì, sono uno scappato di casa. Me ne sono andato a 16 anni. Conservo un inno alla categoria, scovato in “Strada senza uscita” di Walter Benjamin, che condensa il significato di svolte simili: “Solo ciò che già sapevamo a quindici anni costituirà un giorno la nostra attrattiva. Questo, del resto, è il motivo per cui a una cosa non si può mai metter rimedio: l’aver evitato di fuggire dai propri genitori. Dopo 48 ore dall’essersi esposti al mondo, a quell’età, si manifesta, come in una soluzione alcalina, il cristallo della beatitudine esistenziale.”
Scappato di casa. Ogni volta che sento quest’espressione usata spesso come un insulto la prendo come un’offesa personale. Viene brandita per accusare di incompetenza, inaffidabilità, disperazione. È una frase che rivela molto su chi la pronuncia e sulla nostra cultura, più che sull’oggetto dell’espressione stessa. È il titolo di una canzone rap ed è spesso sulle labbra di parlamentari di diverso colore politico. Ma, alla fine, indica che siamo avviluppati in un’incurabile familismo, timorosi di innovare, paurosi di scolpire il nostro destino, affetti senza speranza dalla malattia cronica dello sdraiatismo.
Cosa dire di quanti nelle loro camerette disordinate, ancora tappezzate di
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